Psicologia

Non Amare il Proprio Lavoro

Ovvero un'Esistenza Infelice

Non Amare il Proprio Lavoro

Purtroppo è comune a molti non amare il proprio lavoro. Questo significa svolgere il proprio dovere con svogliatezza, tristezza ed a volte con tutta la rabbia che deriva dall’insoddisfazione.

Non amare il proprio lavoro significa avere un'esistenza infelice visto che il lavoro occupa gran parte del nostro tempo

Non amare il proprio lavoro porta ad alzarsi dal letto già di cattivo umore, perché per 6/8 ore saremo costretti a fare qualcosa di cui non ci importa nulla. In questo modo ogni attività diventa un peso, qualcosa che ci schiaccia ed alimenta la nostra infelicità.

L’attività lavorativa però occupa gran parte del nostro tempo. Quindi non amare il proprio lavoro rende la maggior parte della vita un fardello da sopportare aspettando vacanze e pensione.

Perché molti si ritrovano a vivere così? Per il denaro, il grande padrone che ci costringe ad obbedire ai suoi ordini. Sia ben chiaro che non discuto sulle scelte dettate dalla sopravvivenza.

Mi riferisco piuttosto a chi ha scelto un lavoro in base ai riscontri economici e non alle proprie attitudini. Oppure a quelli che si lasciano logorare da un posto fisso che detestano solo per mancanza di coraggio.

L’infelicità ci abbruttisce e spesso ci incatena nell‘abitudine, impedendoci di cambiare la nostra condizione.

Esiste una via di scampo?

Bisogna Metterci il Cuore

Bisogna stabilire delle priorità in base alle nostre naturali attitudini.

Pensate a come le cose cambiano quando si fa qualcosa che si ama. Mentre non amare il proprio lavoro svuota, fare qualcosa in cui si crede arricchisce emotivamente, ogni giorno.

Fare qualcosa che si ama significa svegliarsi con il sorriso ed affrontare ogni giorno con entusiasmo.

Fai quello che ami e non lavorerai un solo giorno della tua vita” diceva Confucio.

La verità è che ogni giorno si aprono di fronte a noi un’infinità di possibili scelte. Siamo noi a decidere quello che facciamo. Il resto sono scuse.

Perché si può svolgere un’occupazione qualsiasi per sopravvivere mentre si cerca il lavoro dei sogni. Ma non si può buttare tutta la propria vita solo per paura o abitudine.

Non amare il proprio lavoro porta ad una continuata infelicità. Vale davvero la pena di essere infelici per avere più soldi e più oggetti?

Lettura consigliata: Il santo, il surfista e l’amministratore delegato. Come vivere seguendo i desideri del cuore di Robin Sharma

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19 Commenti

  1. C’è lavoro e lavoro; quello che soddisfa le tue attitudini ed aspirazioni e quello che ti costringe a piegare la testa per tirare avanti nella vita.
    Premesso che la condizione ideale sarebbe quella di praticare – semmai – una qualunque attività, ma solo per hobby, con lunghe soste al sole in riva al mare ovvero in montagna, in tutte le stagioni. Gironzolare per il Mondo con le tasche piene di soldi e curiosità intellettuale per godere della Natura e delle bellezze custodite nei Musei et similia, occorre purtroppo constatare che la stragrande maggioranza degli esseri viventi è costretta, ripeto, costretta a lavorare.
    Non c’è scelta e ciò anche quando si trova un’attività che ti porta il pane quotidiano. Il buon (?) Dio (?) non poteva trovare altra pena per il povero Adamo il quale ha mangiato la mela?
    E’ andata così e mi viene difficile lanciare esortazioni ad amare il proprio lavoro a coloro che lo svolgono in miniera o in condizioni parimenti disagiate (altiforni et similia).
    Ho rispetto per le considerazioni/valutazioni altrui e, da terzo, non mi intrometto anche per non essere preso a male parole; meritatissime nella circostanza per le prediche dal pulpito.
    Mi riferisco non – solo – al post che mi sembra molto, molto, molto ottimisticamente esortativo; ma alla generalità dei casi poiché di povertà, per esempio, parlano, scrivono coloro i quali sono ben satolli.
    Ci hai mai pensato?

    Ciao da luigi

    1. Certo che ci ho pensato. Come ho scritto non discuto sulle scelte dettate dalla sopravvivenza. Riflettevo semplicemente su una molto larga categoria di persone che, pur di avere uno stipendio molto alto e/o una posizione sociale considerevole,sacrificano le loro naturali attitudini e la loro felicità. Lo trovo un grande spreco di energie e di talenti dettato dalla paura di possedere o valere di meno. E con una simile condizione ci andiamo a perdere tutti, perché più persone infelici equivalgono a più persone che svolgono male il proprio lavoro e che generano rabbia, frustrazione ed indolenza all’interno della società.
      Ciao Luigi, ti auguro una buona giornata.

      1. Per gli infelici che tali sono per scelte di potere, di ingordigia, di incollamento alla poltrona, me ne importa poco; anzi nulla.
        Lavoratori (?) che, raggiunto un traguardo, non mollano la presa per sete di potere et similia; costoro sono da disprezzare. Sarebbero utili in un Club di saggi che, gratuitamente, comunicano il loro sapere alle nuove generazioni, potendo contare su pensionamenti di certo rispetto.
        Il Mondo farà a meno di loro, ma sembra non se ne rendano conto inseguendo l’immortalità.
        Sono “poveri” – di sensibilità umana, ma non solo – e danneggiano i giovani che scalpitano per entrare nel mondo del Lavoro.
        Fai Tu l’elenco, ma non trascurare i Magistrati, i Docenti Universitari, ecc…, attaccati alla poltrona – quasi – finché morte non li separa.

        Buona giornata anche a Te Mr Loto.

        luigi

        1. Proprio così, ma non danneggiano solo i giovani, danneggiano l’intera società in cui vivono! Perché le persone infelici per scelte di potere, di ingordigia e di incollamento alla poltrona, spesso diventano persone rabbiose ed invidiose che fanno di tutto per rendere infelici anche gli altri…
          Ciao!

          1. Siamo in perfetta sintonia ed io, che predico bene a razzolo benissimo, ho lasciato il lavoro, non certo da miniera, non appena raggiunto il minimo per il pensionamento, con un anno di sicurezza.
            La coerenza, ma sempre con “giustizia” e razionalità, è uno dei miei “difetti”; tanti.

            Ciao da luigi

  2. “Fai quello che ami e non lavorerai un solo giorno della tua vita” diceva Confucio. Ma credo sia stato adottato anche da ladri e farabutti (hai già capito che a me le battute vengono “da sole”) 🙂 .
    Ma restiamo seri!
    Il lavoro è nato per un preciso motivo: ottenere un miglioramento della propria vita (coltivare/allevare/costruire ripari), cioè per cercare un qualche “benessere”.
    Poi, qualcuno ha scoperto che è più piacevole farlo fare ad altri, specie le cose meno piacevoli. E da qui sono nate molte delle parti peggiori dell’uomo: schiavismo, sfruttamento, e soprattutto Potere. Ecco riassunta l’evoluzione dell’uomo.
    Sarebbe bello fare qualcosa che ci dà soddisfazione, ma tutto è collegato al denaro, e la soddisfazione non proviene più in quello che si realizza (per semplificare, un oggetto), ma dai suoi frutti (ad esempio, dalla vendita del medesimo oggetto). La bramosia verso questi “frutti” crea ansia, tensione, insoddisfazione… e chi più ne ha, più ne metta.
    Inoltre, il lavoro… limita la propria libertà di azione. Non si può fare ciò che si vuole, dovendo rispettare disposizioni e volontà altrui. E questo viene visto come una sofferenza. Le soddisfazioni (spesso scarse) non bastano a renderlo appagante. Anche perché diamo molto più importanza al nostro operato che a quello che ne ricaviamo (io lo chiamo l’inverso della “legge della domanda e dell’offerta”, nella quale, perché avvenga lo scambio, quello che “desidero” deve valere di più di quello che “offro”, almeno per me). Inoltre, siccome a fare da intermediario fra le due cose è il denaro, non riusciamo ad interconnette direttamente lo sforzo (il lavoro) con il risultato (l’acquisto di beni); mi spiego: se un’ora di lavoro mi facesse ottenere un piatto di pastasciutta (baratto)… sarebbe più immediato il collegamento fra lavoro svolto e… il vantaggio ottenuto.
    Ho omesso volutamente di parlare del volontariato, in tutte le sue espressioni, e di quanto ad esso connesso, in quanto non ha nelle sue finalità, almeno si spera, una ricerca di ritorno “materiale”.
    Ciao.

    1. Il denaro è il più grande schiavista di tutti i tempi.
      Pensa a come sarebbe il mondo se, a prescindere da quanto si viene pagati, ognuno di noi facesse quello che gli riesce meglio e che gli dà soddisfazione perché è qualcosa che ama fare…
      Esistono chissà quanti pessimi avvocati che sarebbero eccezionali chef o musicisti, e chissà quanti tristi bancari che diventerebbero felici nel fare i giardinieri… ma a queste cose nella nostra società non si può più nemmeno pensare! È considerata follia…

      Ciao Loris, a presto.

  3. Fosse per me tornerei all’era del baratto, dove ognuno possa offrire solo ciò che più sa fare.
    Io credo che ciascuno di noi è portato per qualcosa, chi manualmente chi intellettualmente, chi spiritualmente…
    Siamo esseri che si completano se unissimo tutte le nostre forze e capacità.
    Mi dispiace per coloro che preferiscono avere una vita agiata a discapito del loro benessere fisico e psicologico, anche perchè, a lungo andare, la rabbia e frustrazione che sprigioneranno colpirà chi non centra nulla con le loro decisioni!
    Tutt’altro discorso naturalmente a chi si deve per forza adeguare, come dici giustamente anche tu…
    Un caro saluto Mr Loto 🙂

    1. Tornare al baratto sarebbe decisamente poco pratico ma sicuramente ci farebbe ritrovare lo spirito di gruppo e la partecipazione che dovrebbe sempre esserci in una società civile! 😉
      Hai proprio ragione, la rabbia e la frustrazione di chi fa qualcosa solo per averne dei privilegi si scatenerà prima di tutto sulle persone che ama. È triste dirlo, ma spesso figli e coniugi di queste persone pagano il prezzo più alto di tutti…
      Chi si deve adeguare può anche fare un lavoro che non ama ma non dovrebbe mai perdere lo slancio di continuare a cercare nel frattempo qualcosa di più adatto alle proprie inclinazioni. Mentre invece vedo sempre tanta, troppa rassegnazione in giro. Purtroppo ci si abitua anche ad essere tristi.
      Un caro saluto anche a te e l’augurio di una buona serata.

      1. Francamente, non so se il baratto farebbe riscoprire lo spirito di gruppo… o se invece distruggerebbe anche quel poco che ne resta. Penso che ognuno alleverebbe i suoi polli, costruirebbe le sue cose, e si rivolgerebbe gli altri solo per l’indispensabile, ed alla fine a vincere sarebbe ancora di più l’individualismo.
        Riguardo il terzo punto della tua risposta a Betty, purtroppo anche in questo caso crediamo che “l’erba del vicino è sempre la più verde”, nel senso che pensiamo sempre che il lavoro di altri sia più facile ed appagante del nostro (spesso è una valutazione errata, in quanto valutiamo l’apparenza, non conoscendone a fondo quel che c’è dietro). E questo ci toglie l’umiltà di accettare il nostro lavoro, mettendoci in sofferenza per quello che vorremmo avere. D’altra parte, a 20 anni il mondo appare diverso da come lo vedremo a 50, e spesso, passato un po’ di tempo, fatta una scelta, è difficile cambiare. Pertanto è più facile rassegnarsi, brontolandoci su per esternare la nostra insoddisfazione. E ci si lascia cadere nella tristezza del vivere per tirare avanti.
        Ciao.

        1. Non so. Credo che con il baratto ci si trovi costretti a condividere. Proprio perché ognuno di noi non può bastare a se stesso. Il che accade anche spiritualmente solo che non ce ne accorgiamo.
          Per quanto riguarda l’altro discorso, sono d’accordo sul fatto che l’invidia possa essere l’inizio di una grande infelicità ma non lo trovo l’unico fattore. Molte persone buone, umili e non invidiose si rassegnano ad una condizione di infelicità. È come se in loro mancasse quella spinta vitale che aiuta a superare la paura del cambiamento… difficile trovare una sola causa a questo. Gli esseri umani sono così meravigliosamente complessi…
          Ciao Loris, buon fine settimana!

  4. Buon giorno carissimo Amico, sono riuscita a fare funzionare ancora il computer, anche se non so fino quando..
    Anni fa mio padre diceva la scelta del lavoro e fondamentale, perché il proprio lavoro ci accompagna per sempre.. Lui faceva il falegname, ha fatto la cucina della mia madre a misura, e mi ricordo ancora quanto era bella piccola (nel senso fino e snello) entrambe ai sui tempi la cucina era anche molto elegante anni 60 .. mio padre era un stilista da mobili

    .. si nel proprio lavoro si deve mettere il cuore… solo cosi troviamo piacere in quello che facciamo.. un abbraccio Rebecca

    1. Proprio così, solo amando quello che facciamo possiamo trarne vera soddisfazione e piacere!
      È bello sapere che sei tornata! 🙂
      Ciao, buon fine settimana.

        1. Si, ho già dato un’occhiata al tuo nuovo blog ma non avevo capito che fossero riflessioni e citazioni di tuo padre. Mi sembra un bellissimo gesto d’amore… e poi il fatto che siamo così vicini al Natale gli dona una bella energia!
          Un abbraccio anche a te, buona giornata e buon fine settimana.

          1. comunque il merito e tuo … mi fai sempre ricordare a LUI quando commento da te

    2. Ciao Rebecca.
      Mio padre faceva il calzolaio: uno degli ultimi, credo, a saper cucire “a spago” le suole delle scarpe. Conservo ancora i suoi (pochi) attrezzi, e… guai a chi me li tocca. Ma in famiglia si pensava (a ragione, non lo nego) che non era sensato lavorare 15 ore al giorno piegati su un tavolino per guadagnare quanto un operaio un 8 ore, e quindi il sottoscritto non ha “ereditato” quel lavoro. Forse è stato meglio così, ma mi resta la nostalgia di una manualità che, francamente, è piena di fascino. Manualità che sapeva sopperire alla carenza di risorse che invece il progresso ci ha fornito. E soprattutto aveva il gusto di quell’umiltà che il dio denaro ci ha sottratto.
      Anche a me fa piacere risentirti, di tanti in tanto.
      Ciao.

  5. Come non essere d’accordo con questo articolo? Ormai sono in tanti che iniziano a capire che ridursi a schiavi, non é la strada migliore! W la liberta!

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