Il lavoro rende liberi è una frase tristemente famosa. Era infatti il motto, scritto in tedesco, affisso all’ingresso dei campi di concentramento. Questa scritta sbeffeggiava chi, imprigionato e costretto ai lavori forzati e a crudeli privazioni, era destinato alla morte.
Ovviamente la frase il lavoro rende liberi ha in realtà un significato realistico e, se vogliamo, molto bello. Se lavori dovresti avere una ricompensa in denaro che ti permette di vivere senza dipendere da nessuno. Puoi avere un tetto sulla testa e la possibilità di viaggiare, puoi pensare di costruirti una famiglia o di coltivare una passione senza rendimento.
Eppure, se mi guardo intorno, mi sembra che oggi la maggior parte delle persone non usi il privilegio dell’avere un lavoro nel modo giusto. Tanto che ho iniziato a farmi una domanda: nella nostra società il lavoro rende liberi o rende schiavi fino alla morte?
Per spiegare meglio il mio punto di vista, voglio ricordare una favola di Esopo.
Una Favola per Riflettere
La favola recita più o meno così.
«Un asino selvatico, mentre cercava del cibo, vide un suo simile che brucava l’erba in un grande prato cintato da un’alta staccionata di legno. Era un asino domestico dall’ aspetto sano, il pelo lucido e decisamente ben nutrito.
Osservandolo, l’asino selvatico pensò: “Che asino fortunato, lui sì che sta bene! Non ha problemi e ha cibo a volontà”. In effetti all’asino domestico non mancava proprio nulla. Gli veniva dato da mangiare, riposava in una bella stalla e aveva un grande pascolo privato a sua disposizione. L’altro, invece, doveva accontentarsi della poca erba verde che trovava e doveva cercarla continuamente.
Il povero asino selvatico guardando l’altro lo invidiava da morire.
Un giorno l’asino selvatico incontrò sulla sua strada un animale talmente carico di merci pesanti da non essere riconoscibile. Quando questo alzò il muso per il dolore di una frustata del suo padrone, l’asino selvatico lo riconobbe: era l’asino domestico che invidiava tanto!
“Amico mio,” gli disse, “a questo prezzo non vorrei mai essere al tuo posto. Non ho nessun padrone, sono libero di andare dove voglio. Se poi devo procurami da mangiare tutti i giorni, non è un problema, mi arrangio”. Da quel momento l’asino selvatico smise di essere invidioso dell’asino domestico.»
Il Lavoro Rende Liberi o Alimenta le nostre Schiavitù?
Certo, in questa favola c’è un’analogia con chi, di questi tempi, è obbligato a sostenere grandi sacrifici per soddisfare le necessità primarie.
Ma ci sono anche altri che possono essere paragonati all’asino domestico che è obbligato a portare grossi pesi che non gli permettono di vivere liberamente. Paradossalmente questo vale anche per quelli che ostentano un minimo di benessere economico. Il lavoro rende liberi ma oggi ti incatena alle aspettative altrui, alla vanità e alle cose inutili.
Molte persone infatti, sono costrette ad accettare le “frustate” del mondo del lavoro per motivi che vanno oltre la semplice sussistenza. Purtroppo, per come è strutturata la società, spesso ci si sente obbligati dagli standard di questo sistema a mantenere un certo tenore di vita. Se il lavoro rende liberi perché si corre tutti i giorni e non ci si accorge che si è chiusi in un recinto?
Oltretutto queste persone vengono spesso ed erroneamente invidiate da chi si ferma alle apparenze. I lussi superflui che questo tipo di vita permette sono sotto gli occhi di tutti, i sacrifici e i carichi da portare, no. E il carico può essere in termini di mancanza di tempo per sé e la famiglia, di stress, di frustrazione.
Il lavoro rende liberi se viene vissuto con la consapevolezza di non diventare schiavi dell’avere sempre di più.
Lettura consigliata: Vivi leggero di Regina Wong
Non si deve diventare schiavi dell’avere sempre di più, tuttavia è la vita che è diventata più costosa, e anche in Italia stanno via via tagliando i servizi pubblici e i privati, i potenti, hanno sempre la meglio… ecco, sono questi ultimi a pretendere sempre di più.
Proprio ieri, in provincia di Napoli, è morto un uomo di cinquantacinque anni, un bracciante che lavorava in nero, e che si alzava tutti i giorni alle tre per andare a lavorare nei campi, causa della morte? Il lavoro sotto il Sole cocente… oppure, forse, dovremmo dire che la causa è l’egoismo di chi lo sfruttava in quella maniera, l’egoismo dell’uomo .
A prescindere dai lavori sottopagati e dall’aumento dei costi della vita, oggi non si ha più il senso della misura. Molte persone dispongono di molto più del necessario eppure investono la maggior parte del loro tempo nel lavoro per pagarsi vacanze all’estero, scarpe firmate e smartphone dai costi assurdi. Molti genitori preferiscono comprare cose di marca ai figli piuttosto che passare del tempo con loro ed educarli al senso del denaro, solo per non farli sentire “diversi” dalla massa. Il discorso è lungo…
Ciao, buona serata.
Ritengo che il sistema lavoro degli ultimi 40anni sia improntato proprio a produrre/creare inutilità con obiettivi illogici che fan male,incosciamente,alla coscienza.inoltre sistemi burocratici innaturali ti portano a voler cercare” una.propria gabbia e a difenderla inoltre”.se il lavoro fosse produrre cosa realmente serve,senza contratti ne burocrazie stagnanti,non si metterebbero radici a vita in un luogo,ma ci si muoverà continuamente lavorando ad ogni stop( e quello sarebbe vero viaggiare non l odierno muoversi nevroticamente) rendendo così realmente il lavoro che nobiltà l uomo
Su questo tema c’è un interessante riflessione di Tiziano Terzani in rete. Ti consiglio di cercarlo.
Saluti.
Sicuramente molto genitori non educano i figli al valore del denaro, su questo sono d’accordo. Tra l’altro, conosco di persona gente che più ha e più è tirchia e non spende un centesimo, nemmeno per sé… oppure, ci sono quelle persone che vogliono risparmiare sui beni necessari, ma poi comprano cose del tutto inutili, solo per fare gli esibizionisti. A me è rimasta impressa una scena in metro: c’era un mendicante che chiedeva carità, si avvicinò ad una donna anziana (questa aveva una bella pelliccia, una faccia presuntuosa ed era tutta posata), apre il suo borsellino e, sai quanto le diede al ragazzo di colore? Cinque o dieci centesimi! Giustamente, il mendicante le rispose: “Signore, io conosco il valore del denaro”… e la signora se ne risentì anche, come a dire “non solo te li ho dati!”, fu davvero disgustosa.
Gli* diede, pardon!
È proprio questo il punto. Spesso lavoriamo, lavoriamo per comprare di più, per avere e sfoggiare di più, senza però ottenere una qualità di vita davvero migliore. Il fatto poi di non condividere il proprio benessere è proprio il frutto del “troppo”. Non è un caso che solitamente chi ha meno è molto più generoso di chi ha tanto.
Forse dei buoni guadagni non ci rendono liberi e indipendenti come crediamo, ma ci illudono di poter fare tutto ciò che vogliamo, alimentando i nostri vizi e il nostro lato peggiore.
Un caro saluto.
È uno dei comportamenti in cui riverso maggiore compassione,perché colgo quanto si sia/siano vittime tutte( anche del ricco che innesca tale mossa) e che tutte agevolino alla sempre piu stretta morsa di questa corda che impicchera l umanità intera( e sarà come.ogni traa la sua liberazione) oggi il meccanismo funziina.ancora perché” si desidera” il regalare il proprii tempo per il lavoro=individualismo=ricerca sicurezze ” empatiche(illusione) nel denaro e tramite i beni acquistati
Esatto. Il denaro ci illude di non aver bisogno di altro per essere felici.
PS. Buona serata anche a te, Mr. Loto! Perdonami tutti questi commenti!
Lasciamo perdere cosa ne penso. Tocchi proprio un tasto dolente di questo periodo. Sereno inizio settimana
Peccato, sarebbe stato interessante leggere il tuo pensiero, soprattutto perché, a quanto pare, il discorso ti tocca particolarmente.
Buona settimana anche a te!
Io vengo da una famiglia non abbiente. A 12 anni ho iniziato a lavoricchiare (ai tempi si poteva) volantinando o facendo qualche lavoretto qui e lì. Finita la scuola ho trovato il primo lavoro, finito l’apprendistato licenziata perchè si sarebbero presi un’altra apprendista. Lavoricchia facendo pulizie, scale, pulizie uffici ovviamente in nero. Trovo un altro lavoro … fallisce l’azienda dopo 5 anni. 2 stagioni e poi cameriera in nero, pulizie e soliti lavori in nero. Trovo un altro lavoro ma da deficente cambio perchè pensavo di andare in meglio. Non è stato così dopo un tot altro fallimento aziendale. Altri lavori in nero. Ho lavorato poco “regolare” e molto in nero. Non perchè ho voluto ma perchè comunque non avrei avuto la possibilità di restare a casa senza lavorare. Qualche giorno fa vado a vedere la mia situazione contributiva, sapevo che non era rosea. Dovrei lavorare fino a 75 anni e con 76 prenderei la pensione di vecchiaia. E’ una vita che lavoro, sinceramente quando posso “riposare”? Quando potrò “vivere” senza orari, non contando le ferie o le ore di recupero? Sempre che ci arrivo a 75/76 anni. Penso che il lavoro sia una gabbia. Io le mie ferie e le mie ore le sto tenendo perchè comunque i figli dopo gli 8 anni o li lasci a casa da soli o non hai diritto alla malattia bambino. Quindi se mi si ammala mi servono ferie. Le ferie me le tengo perchè mia figlia, 11 anni, da scuola sta a casa 3 mesi in estate, le vacanze di Natale, le vacanze di Pasqua e negli ultimi anni anche qualche giorno a carnevale. Questa è vita? Sinceramente a volte mi vien da piangere … a volte mi tiro su e penso che ho la salute. Questo è il mio pensiero 🙂 , sono una lagna? Un saluto
Non sei una lagna. Il tuo caso è decisamente diverso da quello di cui parlo nel post. Sicuramente tu hai bisogno di lavorare per il necessario e non dedichi la tua vita al lavoro soltanto per avere di più, il superfluo. Purtroppo ci sono moltissime persone in situazioni simili alle tue e non è facile. Quando una situazione non può essere cambiata nell’immediato però, bisogna concentrarsi sulle cose positive. Certo, hai la salute e hai la tua bella famiglia. Il sorriso dei tuoi figli è sicuramente il carburante per le tue giornate… ed è questo quello che conta! Pensa che ci sono donne che fanno gli straordinari e restano in ufficio fino a tarda notte semplicemente perché non hanno nessuno a casa ad aspettarle. Avranno più soldi di te, andranno in pensione prima e potranno concedersi viaggi e lussi… ma se non hai qualcuno che ti vuole sinceramente bene puoi essere felice?
Ti abbraccio con tanto affetto.
L’ho letto in maniera diversa. Scusa se non ho centrato il post e l’ho capito male. Io sicuramente non lavoro di più di quel che devo, secondo me la vita è “là fuori”. A me basta vivere dignitosamente senza tanti lussi. Non sono una da estetista, parrucchiera e chi più ne ha più ne metta. Sono andata al mare 1 settimana con mio marito e mia figlia e questo mi basta. Sì certo alle volte mi abbatto … mi piacerebbe poter essere più libera, ma come dici tu, penso alla salute … a mia figlia e mio marito … No secondo me se non hai nessuno che ti vuole sinceramente bene non puoi essere felice. Ricambio l’abbraccio 🙂
La felicità che dipende dalla famiglia la trovo un nutrimento alla non coscienza.concordo sul rgalare la vita per.l.ufficio,ma il permettersi di dare ricevere solo tramite una famiglia,non porterà mai l.uomo a lasciarsi andare ad una collettività non legata al sangue ma alla specie,procrea do sempre più il virus alla.madre si tutti i mali : la paura
Certo, l’uomo è fatto di tante cose e una famiglia senza un modo per la sua sussistenza non porta certo alla felicità… ma di sicuro aiuta il suo spirito più del contrario.
Il sistema, l’intero sistema di potere mondiale, è fondato sulla sottrazione del nostro tempo, con lo scopo di trasformare l’uomo in consumatore. L’essere umano pensante deve essere trasformato in consumatore. Meno si pensa, e più si consuma. Il miglior consumatore è, quindi, quello non pensante. E sottraendovi il tempo… voi non pensate.
Il rapporto tra la velocità e il tempo è cambiato solo negli ultimi quattro secoli: alla velocità è stato assimilato un significato di efficacia, di efficienza, mentre alla lentezza viene attribuito un coefficiente simbolico di ritardo e inefficienza.
Una persona che ha dei problemi la chiamiamo “ritardata”: tendiamo, cioè, a considerare poco efficiente chi, magari, una cosa la capisce dopo, chi risponde dopo, chi reagisce dopo. È un ritardo, che per noi oggi è automaticamente un’inefficienza, un’inabilità. Quante volte usiamo l’espressione “perdere tempo”? I latini dicevano “festina lente”, cioè “affrettati lentamente”. Per circa due secoli è stato il motto di molte case nobiliari, nonché del veneziano Aldo Manuzio, il primo editore del mondo. Già nella favola di Fedro, la tartaruga batte la lepre. Il “festina lente” lo ritroviamo nei testi più misteriosi, all’origine del rosacrocianesimo, e in Giordano Bruno, nel famoso dialogo de “La cena delle ceneri”. Manzoni, nei “Promessi sposi”, lo cambia in “adelante, cum judicio”: veloce, ma con prudenza.
La velocità percepita come virtù è un’acquisizione molto recente. Attribuire alla velocità un valore positivo e alla lentezza un valore negativo può non essere una cosa utile, in senso assoluto: chi ha detto che il boia che dice “domani” è peggio del boia che dice “subito”? Nel film “Non ci resta che piangere”, con Benigni e Troisi, Leonardo è una specie di ritardato. Il genio Leonardo era realmente uno “lento”, molte commissioni gli furono tolte perché non finiva in tempo i lavori: per fare le cose, lui si prendeva i suoi tempi. Era lento, ma questo non gli ha impedito di scrivere 13.000 pagine di studi. Impegnava il tempo secondo i suoi principi
Il tempo è un bene collettivo, ma anche individuale. Il tempo è denaro, si dice, ma non è vero: il tempo non è denaro. Il denaro è fungibile, il tempo no: se ti rubo 100 euro potrai sempre recuperarli, ma se ti rubo un’ora, non te la ridarà nessuno. E questo è fondamentale per capire qual è la chiave di volta a cui siamo arrivati, nel nostro sviluppo evolutivo. Il sistema, l’intero sistema di potere mondiale, è fondato sulla “sottrazione” del nostro tempo.
Il tempo ci deve essere sottratto, ci deve essere tolto, perché, in quanto moneta infungibile, diventa la vera risorsa del sistema di potere. Quindi, la vera risorsa non sono i nostri soldi, ma il nostro tempo. La sottrazione del nostro tempo è mirata a trasformare l’uomo in consumatore: l’essere umano pensante deve essere trasformato in consumatore. Meno si pensa, e più si consuma. Il miglior consumatore è quello non pensante. Quindi, sottraendovi il tempo, voi non pensate.
In tempi andati, fino a 70-80 anni fa, la gente teneva dei diari personali. Quella di racchiudere delle cose in un racconto è un’esigenza naturale dell’uomo, una narrazione destinata anche a se stessi. E quella stessa narrazione era un modo anche per pensare – perché non è che si pensa in compagnia, si pensa da soli. Il pensiero, l’introspezione, è individuale. Si può pregare in compagnia, ma non pensare. Il pensiero è veramente la radice della nostra essenza. Se un grande filosofo come Cartesio ha scritto “cogito ergo sum” (penso, dunque sono), ci sarà pure un motivo, no?
E quindi il sistema ci deve togliere il tempo per non farci pensare. Ma dato che noi abbiamo l’esigenza del racconto, ci dà Facebook… che è un modo di sottrarre il tempo, evitando però di farci pensare: chi è che si va a riguardare le scemate che ha scritto in precedenza? Facebook non è un libro, un quaderno. E infatti a un certo punto ti impedisce di andare indietro. È l’ennesimo sistema costruito ai fini del grande progetto: la sottrazione del tempo.
In sostanza, noi non pensiamo, perché il tempo ci viene sottratto. E siccome non pensiamo, non partecipiamo. Chi di noi partecipa al sistema politico? Chi di noi si iscrive al partito che ha votato, andando a rompere i coglioni ai congressi e facendo causa per averli, i congressi? Certo, nessuno nega che anche Facebook abbia anche i suoi aspetti positivi, come, ad esempio, la capacità di veicolare idee. Del resto, nessuna cosa è mai interamente negativa.
Resta però il fatto che, se facciamo la somma del tempo sottratto, a tutti quanti, scopriamo che tutti gli espedienti sono indirizzati proprio alla sottrazione del tempo. La sottrazione del tempo opera attraverso un concetto che si chiama “astrazione del gesto”, ovvero il modo in cui si sono fondate tutte le operazioni di business criminale dell’umanità. Se ti convinco, una tantum, a fumarti un sigaro particolare, tu non diventi un fumatore. E non sei un fumatore se ti fumi quattro sigari all’anno, nelle ricorrenze. Quand’è che diventi un fumatore? Quando io ti fabbrico l’oggetto astratto – l’astrazione di un piacere – che è la sigaretta: te la fumi, senza più neppure accorgerti che stai fumando.
Devi arrivare al gesto per cui tu compri senza pensare a quello che stai comprando. Mangi, senza sapere cosa stai mangiando. Devono toglierti quello che c’è dietro alle cose, ai gesti come mangiare o fumare. Non sarebbero morte di cancro migliaia di persone… Una volta il tabacco non lo si fumava, lo si annusava. Nessuno sarebbe morto di cancro, ma non sarebbe neanche nata la Philip Morris (che fa fare tanti milioni ai suoi proprietari).
Le cose devono funzionare in quel modo: la sottrazione del tempo significa astrazione del contenuto dei gesti, e quindi eliminazione della scelta. Non facciamo più le cose per scelta, ma perché le abbiamo fatte ieri e quindi le rifaremo domani. È stato costruito uno schema per cui la quantità dei nostri gesti automatici è oggi infinitamente superiore a quella dell’uomo di 400 anni fa.
Il tuo scritto è molto interessante e io la penso quasi allo stesso modo anche se più che un progetto mirato dietro a tutto questo ci vedo soltanto delle conseguenze delle nostre scelte collettive. Nessuno ci obbliga sul serio a fare ciò che facciamo… lo decidiamo noi perché così ci piace. Pensare è spesso un fardello per molte persone.
Un appunto: io stesso quando non esistevano i blog tenevo un diario personale e non sono così vecchio! 😉
Ciao, buona domenica.
Ma se tu rappresentassi,almeno,il 51% dell’umanità’ quasi sicuramente non esisterebbe questo blog ed io e te,se mai ci fossimo parlati,sarebbe per godere della vita e non per scrutarne senso e nevrosi.l’ironia si racchiude poi tutto in questo pensiero: i giusti(passami il termine che ho pescato tra altri 1000altrettanto errati a prescindere) si domandano del perché ci siano delle muffe nel cesto;gli altri,assecondano i loro” impulsi” e ne cercano frutti all interno .
È vero ma, se ci pensi, c’è dell’equilibrio in tutto questo.
“Se il lavoro rende liberi perché si corre tutti i giorni e non ci si accorge che si è chiusi in un recinto?”
Bella domanda,forse perché anche qui c’entra il post successivo legato alla matematica ,ai numeri?
Buona serata
È possibile. Oppure è semplicemente una questione di mancanza di coscienza.
A presto.
Io, pensionata da una settimana dopo quasi 43 anni di lavoro, non ho mai pensato di essere una schiava. Il lavoro mi ha dato la possibilità di avere tutto ciò che ho e , di questo, ne sono grata. Certo, non sempre è stato facile, io sono, anzi ero, un’insegnante, il rapporto con alunni e genitori non è mai stato facile. Le richieste sono via , via, aumentate con gli anni. La parte burocratica ha assunto un peso non indifferente, i corsi di aggiornamento, le supplenze, i rapporti con Dirigente e colleghi… però non ho mai vissuto il mio lavoro con un senso di schiavitù. Certo gli ultimi anni sono stati faticosi, si è aggiunto anche il problema di assistere mio padre, che ora non c’è più. Tutto sommato, posso dire che ho sempre cercato di fare del mio meglio ma, ora sono contenta di essere in pensione ! Saluti.
In quello che mi hai scritto ho notato un particolare molto comune tra le persone. “Io SONO (o ERO) un’insegnante.” Non hai detto che insegnavi o che facevi l’insegnante. Sei diventata il tuo lavoro! Ti sei identificata in quello che facevi ogni giorno. Ma tu non eri e non sei il tuo lavoro… anche se è bello sapere che amavi quello che facevi e che l’hai fatto nel migliore dei modi possibili.
Probabilmente oggi, che NON SEI una pensionata ma sei andata in pensione, avrai modo di riscoprire la tua vera essenza.
Un abbraccio.